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4
2011
4 marzo 2011
Il paradosso della parità: l’Europa aumenta le polizze per le donne
Dall’età pensionabile all’ultima decisione della Corte di giustizia
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES— Un bel giorno, Viviane Reding ha detto all’Italia: «Uomini e donne del settore pubblico devono andare tutti in pensione alla stessa età, 65 anni, sennò fate della discriminazione» . Lei era ed è il commissario europeo alla Giustizia, «e il principio generale in sé era sacrosanto — sospira oggi Silvia Costa, Pd, eurodeputato dell’Alleanza progressista dei socialisti e democratici e membro della Commissione Donna al Parlamento europeo — ma per molte l’andare in pensione prima non era un regalo, bensì il riconoscimento di un lavoro usurante, di una vita difficile» . E al contrario, nel settore privato non toccato dal monito della Reding, c’erano donne come le dipendenti dell’Alitalia in crisi che volevano lavorare di più perché a 55 anni perdevano gli ammortizzatori sociali: «Insomma, la Reding aveva tutto il diritto di intervenire, ma non si poteva dire anche una parola di più a Roma? Ogni problema ha molte facce…» . E più facce di tutti ha forse il problema dei problemi, in Europa. Cioè la corsa alla parità fra i sessi, che spesso approda a risultati opposti, o divergenti. Come nelle assicurazioni: la Corte di giustizia europea («attenzione, però — nota Costa — su ricorso di due uomini, non di una donna» ) ha sentenziato che i premi delle compagnie assicuratrici non possono considerare il sesso fra gli altri fattori. È una misura anti-discriminatoria, certo: ma così le donne, che finora hanno sempre pagato premi meno alti (nelle assicurazioni-auto perché guidatrici più prudenti, e in quelle sulla vita perché soggetti più longevi) ora pagheranno di più. Un’altra esperienza inattesa l’ha avuta la stessa Viviane Reding: inviata una lettera alle nazioni Ue perché si impegnassero a introdurre un 30%di quote rosa nei consigli di amministrazione delle aziende, ha avuto il «sì» di Paesi come la Norvegia, ma anche un «vedremo, sono affari nostri» di altri (in Italia la legge si è arenata al Senato); e ha scoperto che il mondo può capovolgersi: in Finlandia, dove sono donne il presidente della Repubblica, il primo ministro e buona parte del governo, nelle aziende però i manager donne non sono poi tanti. «Tutto ciò possiamo chiamarlo il paradosso della parità— dice ancora Costa — e spiegarlo così: uguaglianza e parità non sono la stessa cosa. L’uguaglianza è un principio universale straordinariamente importante. Ma poi va declinato nelle politiche concrete, e intelligenti: dare cose uguali a persone diverse non è uguaglianza, anzi può portare a disparità e tensioni» . E il discorso vale anche per le quote rosa: «Vanno benissimo, per carità, ma devono essere accompagnate da meccanismi trasparenti di selezione. Se no, uomini o donne, viene assunto sempre il cugino dello zio, e si torna tutti al punto di partenza» . Paradossi a parte, l’onda culturale della parità è comunque al culmine: «Ed è chiaro — spiega la sociologa Christina Kenner della Fondazione tedesca Bockler — il cambio dei ruoli, il declino del maschio come colui che porta a casa il cibo, il variare dell’immagine dei sessi. Ma tutto ciò avviene con grandi differenze fra i vari Paesi» . Vero: in Italia lavora il 45%delle donne, fra i valori minimi della Ue, anche perché solo il 10%ha un asilo pubblico cui affidare un figlio. Ma il divario salariale rispetto agli uomini è del 4%, il più basso in assoluto (in Estonia è al 30%). Anche di questo — per fortuna — è fatto il paradosso della parità. Luigi Offeddu loffeddu@rcs. it
Fonte: CorrieredellaSera.it